150 anni
Il Re assume per sé e suoi Successori il titolo di Re d’Italia. Ordiniamo che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato. Da Torino addì 17 marzo 1861".
1861 Nascita del Regno d’Italia
Queste sono le parole solenni che attribuiscono al sovrano la guida politica della nazione. Il nuovo sovrano avrebbe dovuto chiamarsi Vittorio Emanuele I ma per confutare ogni dubbio sulla gestione del Regno, rimarcò la continuità dinastica di casa Savoia.
Cavour dal canto suo era entusiasta, aveva ancora poco tempo da vivere ma ammirava l’Italia, la sua creatura era sorta da un variegato mosaico di stati preunitari nonché attraverso un lungo lavoro politico-diplomatico di alleanze con le potenze europee. Tra la prima e seconda metà del XIX secolo, la borghesia europea aveva abbandonato le idealità romantiche che l’avevano spinta al potere e si volse verso orizzonti realistici incarnati nella cultura positivista che ne legittimarono il potere. I sostenitori della vecchia monarchia erano ai margini, ma di lontano si profilava un nuovo e più temuto avversario: lo spettro del comunismo. Era un fantasma che turbava i sogni delle classi dirigenti e si poneva come forza alternativa per la conquista di spazi di potere in virtù di una poderosa ideologia antagonista. Per Cavour però il potenziale anarchico e socialista riguarderà le generazioni future. Egli aveva assolto il suo compito: aver fatto l’Italia e soprattutto non averla fatta fare a Mazzini.
Correva l’anno 1861 e gli ideali del Risorgimento erano esaltati dalla stampa ufficiale, nelle sparute scuole e tramandati negli angoli più remoti della nostra nazione, attraverso una tradizione orale condita con il carattere mitico e fantastico.
1911 I primi 50 anni dell’Unità
Il fermento patriottico è sempre acceso ma si assiste alla pericolosa mutazione genetica del concetto di nazione della cultura romantica nel nazionalismo della Belle Epoque. La nazione manzoniana “una d’arme, di lingua, d’altare,/ di memorie, di sangue e di cor” diventa “La Grande proletaria si è mossa” pronta alla guerra intesa come “sola igiene del mondo”. Non è più l’Italia degli accordi di Plombieres, il nostro paese non è più legato alla nazione sorella dalla quale era scaturita la prima scintilla di libertà, allorquando il trionfale ingresso di Bonaparte in Milano aveva scosso dal torpore gli animi dei primi patrioti.
È invece l’Italia della Triplice Alleanza, del patto innaturale con il nemico storico del Risorgimento, l’Austria, sui cui stendardi oltre all’aquila imperiale campeggiava, si era detto, l’obbrobrio di un giuramento tradito. Prima di giungere ai 50 anni di unità si passa attraverso la III guerra d’indipendenza, la presa di Roma, la fallimentare politica coloniale di Crispi ma anche la repressione interna, la legge Pica, il presidio dell’esercito al sud sostenuto dalla cultura ufficiale e dalle farneticazioni lombrosiane.
I festeggiamenti comunque sono organizzati dalla classe dirigente liberale che s’identifica nella figura di Giovanni Giolitti, l’uomo politico che aveva sanato i rapporti con la Santa Sede dopo la frattura del non expedit. Sono gli anni dell’industrializzazione, pur in zone limitate, della politica collaborativa tra i liberali progressisti e il riformismo socialista. Giolitti era riuscito a imbrigliare gran parte della forza di sinistra nell’alveo del socialismo gradualista che dal canto suo aveva mietuto copiosi risultati: miglioramento delle condizioni di lavoro, primi esempi di assistenza sanitaria, e previdenziale, azioni a sostegno delle donne e dei bambini, istruzione elementare obbligatoria.
Il 1911 è l’anno della guerra di Libia, tardivo corollario alla già affermata opera di colonizzazione delle potenze europee. Dietro gli splendori delle mostre, della cultura e del progresso, dietro la patinata vetrina europea però si celano terribili le contraddizioni sociali, le antiche rivalità tra gli stati, si avverte quasi una fiacchezza morale, un fastidio di civiltà. Poi assisteremo “all’inutile strage” del I terribile conflitto mondiale, agli stati totalitari e al collasso della civiltà liberale.
Correva l’anno 1911. I cinquanta anni sono festeggiati in modo solenne. Cavour, Mazzini, Vittorio Emanuele II e Garibaldi sono ancora fulgidi esempi e pur sempre i grandi padri della patria venerati tra i banchi di scuola e ricordati nella toponomastica delle città.
1961 Si celebrano i 100 anni dell’Unità
I cento anni di Unità si celebrano all’insegna della crescita economica. Il nostro paese è inserito nella ferrea logica del mondo bipolare. L’Italia è un paese con vistose peculiarità: porta ancora con sé il peso della guerra, un peso materiale e morale. E’ un paese sconfitto, ha partorito ed esportato uno dei primi esempi di regime totalitario. Allo stesso tempo è presente il più grande Partito Comunista dell’Europa occidentale. La frattura all’interno del campo politico ha radici profonde, tuttavia conclusa l’esperienza centrista, si assiste quasi increduli a una rigogliosa crescita economica. Il cosiddetto miracolo economico che ha il suo apice tra il 1958/1963, segna una forte spinta verso la modernità.
Reti autostradali, motorizzazione, diffusione di elettrodomestici e TV costituiscono la caratteristica di questi anni, anni in cui si assiste anche al mutamento del costume e della società. Per il momento a garantire la felicità dell’uomo comune sono le tre M (mestiere, moglie, macchina) ma si gettano sin da ora le basi per i nuovi idoli (Marx, Marcuse, Mao) le nuove e rivoluzionarie M della contestazione in Europa e in Italia. Gli anni Sessanta assistono all’elaborazione di una nuova ideologia alternativa, terzomondista, pacifista e femminista che sorge sul tronco del marxismo ortodosso.
Correva l’anno 1961. Parole come patria, nazione, unità, tricolore hanno perso il loro fascino, anzi sono pronunciate sottovoce perché di sapore nostalgico, causa l’uso distorto e propagandistico che ne fece il regime fascista. Lo spirito patriottico si trascina stancamente nelle aule scolastiche, dove a tratti si respira ancora lo spirito idealistico-gentiliano.
Sono più allettanti termini sovranazionali, ONU, Patto atlantico, Socialismo, internazionalismo. L’orizzonte nazionale appare troppo angusto in un mondo dove non si può non scegliere da che parte stare.
2011 ovvero 150 anni dell’Unità
La società è quella post-industriale, nel mondo esiste una sola superpotenza uscita vittoriosa dalla II guerra mondiale e dalla guerra fredda accanto a un’altra che si affaccia, la Cina dagli sviluppi inaspettati e a tratti inquietanti. Cessato il pericolo del comunismo per le società liberal-capitaliste si aggira lo spettro dell’Islam radicale e di un mondo disperato che bussa alle porte del fortino dei paesi ricchi. L’Italia ha consumato la crisi della I Repubblica e il mancato decollo della seconda. Tutte le forze politiche si uniscono intorno al tricolore anche coloro che vivevano nel mito delle stelle e strisce o della rivoluzione d’ottobre. La nazionale di calcio e qualche compassato momento celebrativo perdono così il loro monopolio, tutti cantano l’inno dello sconosciuto Mameli persino i giocatori di calcio. È reintrodotta la festa della Repubblica, un tempo intesa come rigurgito militarista e nazionalista.
Parlare di nazione e patria, ora che sono caduti gli steccati della guerra fredda non fa più paura; il passato tuttavia ritorna e anche la celebrazione non ha visto tutti concordi. Nel momento in cui si festeggiano i 150 anni, sono in edicola, guai se non fosse così, testi che parlano dell’antirisorgimento o del risorgimento tradito. Terroni e Polentoni sono solo due di una serie innumerevole pubblicazioni che indagano sul lato oscuro di quel periodo; non è nuova tale prospettiva, il Risorgimento mancato è presente sia nei Quaderni del carcere di Gramsci sia nella narrativa meridionalista che passa attraverso l’asse I Viceré, I vecchi e i Giovani e il Gattopardo.
Il giudizio di Gramsci ad esempio è senza appello : “I liberali concepiscono l’unità come allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia…”.
Dovunque esercito, coprifuoco, pena di morte eseguita con estrema facilità; deportazione sulle montagne del nord; prefetti e sindaci piemontesi, di nomina governativa, in quelle terre che si proclamavano “liberate”, e, infine, l’acquisizione della complicità di parte della nobiltà e della borghesia meridionale con la cessione di terre del demanio, di proprietà ecclesiastiche confiscate, e di posti a sedere nel Senato di nomina regia, e cioè, ancora una volta, piemontese.
Fratelli d’Italia! Dirà qualcuno. Anche Caino e Abele erano fratelli si potrebbe rispondere. Ma questo ora a cosa serve? L’Italia ha avuto una lunghissima gestazione ma un frettoloso parto. Molti furono i lati oscuri, le insufficienze ma forse quella cavouriano-sabauda fu l’unica via per ottenere un risultato che la Spagna, l’Inghilterra, la Francia ad esempio avevano conquistato secoli addietro.
Corre l’anno 2011. Il compito della scuola non è legittimare un Risorgimento delle classi dirigenti né quello di inneggiare ai briganti e ai Borboni ma analizzare il periodo attraverso una riflessione critica, inserendo fatti, circostanze, personaggi e moltitudini nelle coordinate del tempo senza mai dimenticare l’orgoglio di appartenere a una nazione culla di cultura e civiltà.
Prof. Giancarlo Minardi